terça-feira, dezembro 12, 2006

Lina Bo Bardi (Roma 1914 – San Paolo 1992) ha creato spazi dove tutte le persone, senza distinzione di classe o di razza, potessero respirare a pieni polmoni, divertirsi, ricrearsi. La sua sensibilità artistico-architettonica aveva attinto dal padre, Enrico Bo, anarchico con una vita avventurosa, costellata da tanti mestieri: proprietario di una fabbrica di giocattoli, grafico, costruttore a Roma di buona parte del quartiere popolare Testaccio, dove ebbe cura di dotare gli edifici di comfort e di cortili con giardino.
“La tesi di laurea di Lina fu scandalosa per l’epoca (era il 1939), dato che era una Maternità per madri nubili – racconta la sorella Graziella Bo -. E, per di più, fu discussa davanti a due esponenti dell’architettura di regime come Giovannoni e Piacentini. Lina dovette anche farsi prestare il vestito da Giovane fascista, dato che non l’aveva ma era obbligatorio”.


Prodotti industriali locali, materiali grezzi e rudimentali, piastrelle di ceramica fatte a mano, sono gli elementi che Lina Bo scelse per contrapporre un’architettura imperfetta a quella asettica da Primo mondo. Adottò il linguaggio del riciclo tipico delle favelas e delle case popolari dell’entroterra brasiliano. A questo proposito vale la pena ricordare gli studi sull’artigianato, le esposizioni e la creazione del Museo di Arte Popolare di Bahia, e più tardi della Casa del Benin sempre a Bahia.Un manifesto ideale della “poetica della povertà” si oppone agli spazi creati dalle accademie ipermoderne, spazi concepiti da una cultura fredda, responsabile della divisione del genere umano tra superstiti di un mondo da cancellare, condannati alla distruzione ecologica, da un lato e dall’altro ricchi promotori di un progresso cieco in nome di una democrazia finta, violenta. Lina lavorò anche nei campi del design, della scenografia, della museografia, del cinema, dell’editoria e della didattica. Si definiva comunista. Ai suoi collaboratori citava spesso Gramsci e la critica della cultura industriale. Nella sua nuova idea di cultura, espressione di un impegno morale che integrasse l’efficienza tecnologica alle radici dell’esperienza popolare, il “popolare” non è inteso come folclore ma come portatore di un nuovo senso dell’umanesimo. Quel nuovo Umanesimo che dal Terzo Mondo giunge oggi, attraverso i new-global, a sventolare le sue bandiere multicolori sotto le grigie, fredde stanze del potere del Primo mondo.


Prodotti industriali locali, materiali grezzi e rudimentali, piastrelle di ceramica fatte a mano, sono gli elementi che Lina Bo scelse per contrapporre un’architettura imperfetta a quella asettica da Primo mondo. Adottò il linguaggio del riciclo tipico delle favelas e delle case popolari dell’entroterra brasiliano. A questo proposito vale la pena ricordare gli studi sull’artigianato, le esposizioni e la creazione del Museo di Arte Popolare di Bahia, e più tardi della Casa del Benin sempre a Bahia.Un manifesto ideale della “poetica della povertà” si oppone agli spazi creati dalle accademie ipermoderne, spazi concepiti da una cultura fredda, responsabile della divisione del genere umano tra superstiti di un mondo da cancellare, condannati alla distruzione ecologica, da un lato e dall’altro ricchi promotori di un progresso cieco in nome di una democrazia finta, violenta. Lina lavorò anche nei campi del design, della scenografia, della museografia, del cinema, dell’editoria e della didattica. Si definiva comunista. Ai suoi collaboratori citava spesso Gramsci e la critica della cultura industriale. Nella sua nuova idea di cultura, espressione di un impegno morale che integrasse l’efficienza tecnologica alle radici dell’esperienza popolare, il “popolare” non è inteso come folclore ma come portatore di un nuovo senso dell’umanesimo. Quel nuovo Umanesimo che dal Terzo Mondo giunge oggi, attraverso i new-global, a sventolare le sue bandiere multicolori sotto le grigie, fredde stanze del potere del Primo mondo.